L’idea è così semplice e di un cattivo gusto di natura così incommensurabile da rendere l’ultima opera di Cattelan incommentabile, fuori da qualsiasi legittimità che su di essa si eserciti la critica. Sarà dovere di referto e cronaca la descrizione elementare. Come nelle prime fotografie del XIX secolo non era insolito che si fotografassero anche i morti nei grandi ritratti in posa, con le famiglie riunite, così Cattelan presenta un tableau vivant fatto di alcune comparse realmente morte. La vasta istallazione, l’irremissibile performance ha luogo in un mercato del pesce ancora attivo nell’area portuale di Napoli.

Nei primi incunaboli della fotografia la composizione dell’immagine e il gusto del ritratto in posa sono ancora quelli ereditati dalla pittura, non c’è uno scarto ma una lunga continuità. La fotografia girò il suo obiettivo e prese a fotografare lo studio del pittore con i suoi modelli. Ma Cattelan gioca con il recupero di una fase ben precisa e minoritaria della fotografia. Provate a guardare il dagherrotipo di Carl Durheim, Postmortem of a Child del 1852, vedrete un bambino ormai morto conservato nell’impressione su lastra fotografica. I bambini più di qualsiasi altro soggetto venivano assimilati nel fondo buio della camera, dell’obiettivo, i lineamenti ormai morti venivano per la prima volta preservati da un’incisione luminosa e bidimensionale. O ancora, ricordate la foto di Henry Peach Robinson Fading away (La vita che si dilegua) del 1858? L’immagine era ottenuta sovrapponendo cinque incisioni fotografiche diverse per fissare il momento esatto e inalterato della morte di una bambina malata, nel suo letto, tra i suoi cari. Quello che Cattelan eredita e recupera da questa fase della storia delle immagini è il senso di continuità non solo con la tradizione del grande ritratto in posa, individuale o di famiglia, sempre monarchico, ma anche la continuità tra corpo morto e corpo vivo, accostati insieme e composti in uno dal gusto per l’immagine.

illustrazione-cattelan_roberta-garzillosm

Illustrazione di Roberta Garzillo

La fotografia delle origini, nel suo senso iniziale di appropriazione di tutte le cose, ha letteralmente vissuto una fase in cui non ha percepito la differenza tra un corpo morto e le cose, anch’esso cosa tra le cose e ritratto tra i ritratti. Una bambina morta disposta in posa tra le sue bambole mostrava chiaramente che non era percepita in modo chiaro una distinzione tra i corpi allestiti nell’unico spazio della posa.
Analogo è il procedimento messo in atto da Cattelan nel recinto ittico, sotto l’immensa volta del capannone industriale. All’interno dell’hangar mercantile si apre davanti a voi l’architettura scenica, il tableau funebre che la storia dell’arte non ha più visto dalle tombe dei faraoni. Davanti a noi oggi, davanti a me, a te, a voi tutti, in una città come Napoli, dopo la densità umana che vi attornia mentre vi muovete per arrivare all’Opera divina, lì, dopo tutto questo, avete loro, i mai visti.
Una struttura di corpi disposti in uno spazio ampio, avvolti da fondali d’ombra, fondali pittorici che ricordano i grandi Vélazquez oscuri, che riunisce insieme modelli e comparse di corpi vivi e cadaveri e cose non vive di uomini e cose. Vicina nello spirito e nella composizione ai ritratti delle famiglie reali, numerose e orizzontali, numerabili e non caotiche, l’opera illude come una tela e come una tela ha una falsa profondità prospettica. Il tentativo di Cattelan è proprio quello di evocare il tableau vivant, fatto di corpi che si distinguono appena dalla finzione di corpi dipinti, dall’inganno di corpi fotografati, e creare una sovrapposizione tangibile di errori di percezione. Simbolo questo che ha per lettera corpi che solo una liberatoria sanitaria ha permesso che fossero là.
Sono in piedi o distesi, seduti a gambe incrociate, appoggiati gli uni agli altri come una famiglia, vivi e morti, distinguibili solo da molto vicino. Il grande ambiente è poco illuminato, con luci taglienti e senza percorsi prestabiliti. Non esiste una pedana sopraelevata, voi e loro camminate o restate fermi sullo stesso piano, sulla stessa pavimentazione che sa di mercato e di risciacqui.


Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.

A proposito dell'autore

Studioso di letterature comparate è autore di prose critiche su oggetti immaginari, dalle opere d’arte pubblicate in esclusiva per Racna alle recensioni di film mai esistiti apparse su «Le Parole e le Cose» e «Nazione Indiana». Del 2017 il suo primo libro di poesia Per l'odio che vi porto edito da Oédipus. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich.