Una camera Panoptica allestita in un appartamento di Parigi (2016)

Un congegno predisposto per il suo innesco, un ordigno pensato e preordinato per il nostro sguardo. Davanti alla sua semplice ostensione dialogica spariscono le affollate ore di Nymphomaniac e di Pornografia. Un prologo in cielo, una imposizione di mani taumaturgiche e regali. Sophie Calle stavolta ordisce per noi una camera panoptica dalla quale guardare, spiare, le vite di un uomo e di una donna – una coppia forse – raggiunti dalla potenza telescopica, da un complesso sistema di schermi e telecamere spia, nell’appartamento di fronte a quello da cui noi siamo invitati a guardare, dall’altra parte della strada. Nel momento in cui ognuno di noi entra nel Panopticon l’opera si manifesterà in modi diversi, immodificabili e plurimi.

L’apertura che è toccata all’osservatore che vi parla è stata uno spasmo, una contrazione di vomito. Coro angelico a due voci per disegnare un solo motivo, un solo impulso. Ferita arborea e onnivora, desiderata e passiva, desiderata e subita. Le confessioni retrive a cui si espone l’uomo intercettato nell’appartamento di fronte faranno il resto.
«Per ora vomito, anche dieci volte in una notte, ho una notevole inclinazione al vomito». Così termina in buio quello che l’osservatore riesce ad avvertire, smaltato e di un turchese cupo, come le cartoline dall’Hotel Mirana: «Avrei preferito morire strozzato dal cordone ombelicale…».
La coppia che discute i termini di una nascita così abortita e metafisica, è la stessa – e in sottili disconoscimenti non è la stessa – che vediamo muoversi su una meccanica infallibile per il resto del tempo in cui rimane esposta al nostro sguardo. Si è parlato a lungo qualche mese fa di un cocktail che Jean Clair, il noto critico, avrebbe preso nella stanza insieme alla coppia osservata, si è discusso il senso del suo intervento nell’esperimento, ci si è chiesti se conoscesse da «prima» la coppia, se abbia voluto manifestare in quel modo il suo dissenso o la sua approvazione per l’operazione-Calle.

Illustrazione di Roberta Garzillo

Illustrazione di Roberta Garzillo

Nel corso dell’istallazione, che dura ormai già da due anni, i due osservati si sono anche sposati, le felicitazioni non li hanno imbarazzati. I due tornano spesso a casa a piedi.
Se non è particolarmente nuova la pratica di monitorare ventiquattro ore su ventiquattro un ambiente umano chiuso, era invece inaudita la pratica di far durare anni una istallazione. Ma non anni come durata museale, ma anni come durata vitale, come esposizione di un campo vitale all’osservazione, alla modulazione dell’arte. Bisogna entrare nel dettaglio e sapere che l’8 giugno del 2014 è stata aperta la sperimentazione di Sophie Calle, l’opera è stata portata all’accensione. Dalle fermate della metro di Bastille o République si raggiunge a piedi l’appartamento predisposto, allestito, arredato, vuoto: lì è alloggiata la macchina, da lì è possibile iniziare l’osservazione di quanto accade nell’appartamento posto sotto sorveglianza. È possibile restare nella camera-congegno per non più di tre giorni, è necessario prenotare la propria visita se si vuole anche trascorrere la notte. La casa che ospita i visitatori non può accogliere più di sei ospiti per notte. Non è possibile prenotare per due persone. Nell’appartamento di fronte vive la coppia che è stata posta da più di due anni sotto perenne e integrale sorveglianza, sia visiva che audio.

Al termine dell’ultima notte nella sequenza di giorni che ci è dato di osservare di persona, l’uomo non è tornato a casa. Ora quello che non abbiamo capito subito è quanto non siamo riusciti a scorgere. L’uomo che vedevamo all’inizio, che abbiamo visto noi, non è lo stesso che è in casa i primi giorni di ottobre. Per la prima volta da quando l’esperimento della Calle è iniziato pare ci sia stato un avvicendamento. L’uomo che prima spiavamo, secondo molti, oggi è possibile incontrarlo nella camera panoptica, nel luogo a cui accedono i visitatori. Si è trasferito nel palazzo base dell’esperimento, di fronte vivono ancora sua moglie e un figlio di lei con l’altro uomo. Sophie Calle non ha annunciato quando terminerà il progetto.
Dal 2014 siamo diventati spettatori che girano in nulla, la trasparenza inaridita dello sguardo è ormai insostenibile. La vista a cui siamo esposti, la passività con cui ci viene concessa quella vista sono il filtro ottico stesso che ci sta davanti, la pellicola aderente alle nostre pupille. Quello che loro agiscono noi vediamo, noi siamo. La distanza tra chi osserva e gli oggetti è il privilegio che ci viene accordato. Nessuna spiegazione in corso. Il privilegio è pura solitudine e una visuale tersa, ottimale, in campo ottico.

La durata della nostra osservazione è costante, dalla finestra o in strada, niente viene escluso in questa registrazione scarna. Il congegno e la stessa affluenza dei visitatori lentamente produce un video-tape, come le api secernono miele. La nostra visuale è il filamento ghiandolare dello sguardo di chi è stato lì, alla finestra. Sempre di più si confondono i piani della vista artificiale di chi spia, sempre di più si confonde il materiale visivo raccolto da quest’ossessione periscopica con la sostanza dell’osservazione diretta di chi ha potuto recarsi lì. E assistiamo, passivi e spiati anche noi, seduti davanti a loro, seduti e costretti a ogni splendore e a ogni mortificazione.

 

Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.