RACNA Magazine in viaggio, stavolta si va in Mongolia alla scoperta dei cacciatori con le aquile! 

Agosto 2014

Racconto e impressioni della spedizione fotografica in Mongolia denominata “I cacciatori con le Aquile”.
La spedizione è composta da sei fotografi, guidati da Luca Bracali, fotoreporter e giornalista, premio Pulitzer per le foto naturalistiche, collaboratore di National Geographic, l’unico documentarista ad aver raggiunto con gli sci il polo nord. Attraverso i suoi scatti fotografici documenta, in collaborazione con fisici e scienziati, l’effetto dello scioglimento dei ghiacciai sul pianeta.
Tre sono i giorni di viaggio per raggiungere la Mongolia: un percorso che ha inizio da Novosibirsk, proseguendo poi per 1600 km su strada asfaltata in Siberia; seguono quindi altri 1600 km di steppa in Mongolia – al confine tra Kazakhistan, Siberia e Cina – e quindi 32 km a piedi – a 3000 mt di altitudine – per raggiungere il Potanijn il più alto ghiacciaio dei monti Altai.

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Ci arriviamo dopo 16 km lungo una salita dolce e faticosa, scortati da cavalli e cammelli che trasportano cibo e tende con cui ci accampiamo per la notte. Il ghiacciaio si impone alla vista e domina tutto il paesaggio. Gli scatti notturni con la luna piena sono i migliori… con raffiche di vento e circa zero gradi di temperatura.

Siamo in una terra completamente incontaminata con un ecosistema integro. La popolazione Mongola nomade, per le estreme condizioni climatiche del lungo inverno (le temperature toccano i 40 gradi sottozero), sopravvive solo grazie alla caccia e all’allevamento del bestiame, secondo i ritmi della transumanza. In Mongolia vivono 2.800.000 di abitanti su un territorio che è grande quasi 4 volte la Francia e 40.000.000 di animali tra cui il yak (un bue tibetano), pecore, capre, montoni, mucche, cavalli,cammelli, marmotte, volpi e lupi siberiani.

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Alla vista si aprono scenari immensi di catene montuose e praterie steppose. I colori sono tersi, puliti ma morbidi. Si ha l’impressione di camminare in luoghi incontaminati dove, la natura – fatta di steppa, sassi, fiumi, laghi – è dominante su tutto il resto. L’odore della terra è pungente e acido, come quello degli escrementi rinsecchiti. Le donne, gli uomini e i loro vestiti emanano un intenso odore di pecora. L’ospitalità, la dignità, la fierezza nei volti, colpiscono. Gli occhi sono intensi, le guance rubiconde, gli sguardi intelligenti e attenti. Sono nomadi alla ricerca di climi più miti dove gli animali possono mangiare e sopravvivere d’inverno e a loro volta assicurare, il latte, il formaggio e la carne, necessari alla sopravvivenza.
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Gli uomini vanno a caccia o portano al pascolo gli animali, e le donne, con un rapporto di dominio e vicinanza, mungono tutti giorni cavalli, yak, mucche e pecore. Dal latte munto ne ricavano una crema acidula, come uno yogurt, e un forte e dolciastro formaggio che adagiano per la stagionatura su una tela di cannucce sorretta da pochi rami incrociati “come delle vetrine all’aperto”.
Le gher sono le loro abitazioni rotonde con una piccola e unica apertura al centro. L’interno emana un calore e un odore pungente. Le pareti sono di lana e legno, ricoperte da una tela bianca, e sulla terra come rivestimento, tappeti coloratissimi. Sui letti, posizionati in cerchio, ai bordi della gher, sono adagiate coperte di lana da colori vivaci, che le stesse donne intrecciano con le loro mani. Alle pareti sono appesi abiti invernali ricavati dal pelo di animali, fotografie di generazioni precedenti e trofei di caccia. In un angolo addossato alla parete c’è un piccolo mobile di legno colorato per le stoviglie e accanto appesi a una fune, pezzi di carne rosso-viva e viscere di animali. Al centro della gher c’è una stufa color ruggine con una canna fumaria alimentata con escrementi animali, trattati ed essiccati, perché nella zona ovest della Mongolia non non c’è legna da bruciare. Sulla stufa accesa c’è un pentolone, dove si riscalda il latte e si prepara il formaggio. Ogni volta che si entra nella gher, si riceve sempre una calda accoglienza, un tavolo rotondo imbandito per gli ospiti con ciotole decorate che contengono latte tiepido di cavallo o di capra mescolato al tè, e poi formaggio fresco o stagionato, burro, crema acida di latte, frittelle di pasta fatte di acqua e farina e biscotti artigianali.

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Assistiamo all’interno della gher alla “battitura della lana“: sei donne sono in cerchio sedute a terra intorno a una tela rosso rubino, su cui è adagiata una soffice ma rozza lana color cammello. Nelle mani hanno due lunghi bastoni con cui battono la lana in sincronia, creando con un ritmo incessante un crescendo musicale. In piedi di lato, c’è un’altra donna che con un bastone, in una sacca di viscere di animale, lavora il latte per tirarne fuori una crema simile al burro.

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Il giorno seguente alla battitura si partecipa alla “lavorazione della lana all’aperto” bagnata e avvolta stretta nelle canne, per infeltrirla e compattarla e ricavarne tappeti, coperte, e rivestimenti per la gher.

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Partiamo per il famoso incontro con “ i cacciatori con le aquile”. Il percorso è di circa 200 km nella steppa, ostacolato dal guado dei fiumi e dalla pioggia torrenziale. L’appuntamento è sotto una montagna che raggiungiamo a piedi ansiosi di carpire degli scatti unici. Da lontano galoppando, arriva con atteggiamento fiero il cavaliere vestito con il costume che indossa d’inverno per la caccia e porta sul braccio l’Aquila Dorata, la “Golden Eagle”. I click aumentano all’impazzata ed i cavaliere ci osserva con grande dignità, consapevole della sua unicità.

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Il giorno successivo conosciamo Sailau il più vecchio cacciatore con le aquile intervistato anche dalla BBC. Dopo avergli scattato una serie interminabile di foto ci invita a casa per la cenare. Abbiamo già cenato e vorremmo lavorare con Luca Bracali sulle foto prodotte, ma non possiamo rifiutare l’invito. Al centro della spaziosa gher di Sailau c’è un tavolo rotondo ben apparecchiato con ciotole di ceramica colorate già riempite del loro latte tiepido, e al centro una grande zuppiera tonda che contiene, a prima vista, della carne con grossi pezzi di grasso. Con grande sorpresa da parte di tutti, non è grasso ma una pasta che avvolge questi grandi pezzi di mucca mista a pecora. Mangiamo con le mani, come dei bambini ingordi, e poi ascoltiamo la storia di Sailau e delle sue aquile. Intanto, per riscaldarci, beviamo vari bicchieri di vodka con altrettanti brindisi e quindi ci corichiamo brilli e felici adagiandoci sulla nostra stuoia nella tenda, avvolti dal sacco a pelo (nella la notte la temperatura scende a circa 0 gradi, mentre di giorno è tra i 12 e i 22 gradi).

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Sailau ci racconta che “le aquile vanno a caccia nel periodo invernale da novembre a febbraio. Solo le aquile femmine, che sono le più aggressive, sono prese dal nido e addestrate alla caccia dall’uomo. Sono mantenute in cattività per 9 anni e poi vengono liberate per la riproduzione. Durante la caccia possono cacciare la preda fino a 10 km di distanza. Con gli artigli trattengono la preda che può essere una lepre, una volpe, ma anche un lupo siberiano e rispettano il patto con il cacciatore, ovvero l’aquila mangia la carne, mentre il cacciatore prende la pelliccia dell’animale”. Si parte per conoscere e fotografare, la più giovane cacciatrice con le aquile, una ragazzina di 13 anni il cui nome è Aisholpan Agalai. Sarà questo il suo primo inverno di caccia, dopo un lungo addestramento con l’aquila. La sera siamo invitati nella loro gher. La giovane cacciatrice mescola sulla stufa il latte caldo, mentre un’altra donna, con movimento ritmico dall’alto verso il basso, rimescola con un lungo bastone di legno il latte per farne formaggio. La nonna della bambina ci mostra le foto storiche del nonno nella “caccia con le aquile”. Alle pareti ci sono trofei e riconoscimenti: da molte generazioni in famiglia si tramanda questa tradizione. Il clima è caldo e accogliente e l’organizzazione familiare è di tipo patriarcale. Ma tutti collaborano per la sopravvivenza invernale, anche i ragazzini.

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Siamo di ritorno. Lasciamo la magia della Mongolia, una civiltà esistente dal 1300 a.c., i colori, gli odori, il campo, le tende, le due guide mongole Agii e Arai, i due autisti e il cuoco che ci hanno accompagnato in maniera esperta, per tornare sulla Transiberiana attraversando la Siberia, “Siber, la terra che dorme” uno dei posti più antichi, verdi, sconfinati e affascinanti del pianeta.

 

Foto e Racconto di Viviana Rasulo