Cortocicuiti cognitivi, racconto-recensione dell’happening di arte contemporanea di Domenico Napolitano e Frank Dee al Convitto Nazionale Giordano Bruno di Maddaloni.

In tempi in cui l’arte è spesso intesa come superficiale ricerca di un’icona facile e vendibile sul mercato, soprattutto in luoghi provinciali e destabilizzanti, dove calcestruzzo e asfalto hanno soffocato ogni anelito di vivibilità, mi sono stupito imbattendomi in Domeworld. La mostra (da domus “casa” e world “mondo”) degli artisti Domenico Napolitano e Frank Dee è stata un vero e proprio happening. Con la cura di Enzo Battarra, critico attento al panorama dell’arte contemporanea e del Novecento in Campania, si è esposta difatti un’unica, grande, opera “multimediale”: una sinestesia di pittura, simbolistiche installazioni, musica, video e performance. Un’opera che è andata oltre il rimando, ricordato da Battarra, alle performance degli artisti Fluxus degli anni Sessanta, verso una generale esaltazione dei valori e delle tradizioni culturali maddalonesi e, più profondamente, italiani e occidentali.

Una sedia bianca di legno e di vimini – omaggio a un’orgogliosa tradizione manifatturiera di Maddaloni – ha il sedile rotto. Un alberello la sconquassa con le sue radici e fra i rami regge un cervello umano dorato, come a indicare che la nostra cultura non può sussistere slegata da ogni rapporto con le nostre radici, col patrimonio della nostra terra. Tuttavia questo rapporto non esaurisce la nostra sete di conoscenza e di vita e può anzi soffocarla attraverso quelle convenzioni sociali che proteggono tale rapporto. È una momentanea negazione del passato, il momento del viaggio e della scoperta; alle spalle della sedia e dell’albero compaiono la gabbietta delle convenzioni sociali e le valigie di cartone, logore e consunte, del povero migrante, un’iconografia che attinge a uno dei simboli più forti della cultura italiana negli ultimi secoli. Ancora oltre, un baule di legno, grande e pesante, custodisce fedelmente il nostro passato e non permette che si perda. È questo il giusto rapporto, la fervida alchimia che permette al caos informe e instabile dei nostri pensier e delle nostre pulsioni creative, di trovare un assetto coerente e fertile: la creazione artistica. Ecco allora che un indefinito ammasso di materia grezza, con una vaga forma di serpente, genera a lato un nuovo alberello, a raffigurare questo felice risultato. Alle spalle di questa installazione, premessa e giustificazione necessaria, si erge “il muro”, un grande pannello ricoperto di tela di stoffa, fogli di carta, pezzi di telone in polietilene fissati con delle cinghie.

A cosa serve all’arte un muro isolato se non per supportare un manifesto? Napolitano ha pensato bene di utilizzare questo muro per dichiarare tutto di se stesso, tutti i suoi valori, tutto ciò in cui ha imparato a credere: le mongolfiere e i dirigibili dipinti in acrilico e intrisi di bitume, vecchi marchi di fabbrica di un uomo che ama la libertà sopra ogni altra cosa, i suoi studi anatomici in carboncino – perché l’uomo e il suo sentire sono al centro dell’arte dell’Occidente –, le copie dell’arte classica, ed ecco far capolino una testa di filosofo greco, le gambe del Dioniso del Partenone, la famosa Testa di Cavallo dei principi Carafa di Maddaloni. Il legame con Maddaloni è ovunque: Maddaloni nell’ex voto del cuore con la fiamma che le donne portavano al Santuario di San Michele Arcangelo, Maddaloni nella testa di cavallo Carafa, Maddaloni già nella scelta del luogo dell’esposizione, la sala grande del Convitto Nazionale affrescata dai fratelli Funaro, uno dei simboli della città. In tutto questo orrore del vuoto una serie di linee e di campiture di bruni, grigi e azzurri evitano ogni pesantezza e danno ritmo e brio alla composizione. Omaggio all’arte concettuale sono le evocative scritte, in corsivo con carboncino gran parte delle quali vergate durante la performance, riportate direttamente sul “muro”.

È un’opera orientata all’ottimismo, suggerito dalle musiche scelte e campionate da Frank Dee (dai 24 Grana e i 99 Posse – riferimento alla storia dello stesso Dee, che in passato ha lavorato come producer per le due band napoletane – a brani più “classici” dei repertori di Satie, Aubry e altri), e dalle scritte di Napolitano (“diventa te stesso”, “che cosa ami negli altri? le mie speranze”, “si aprono come occhi [le idee?]” e altre), sottolineate dalle oneste fotografie panoramiche di Maddaloni proiettate sull’angolo della sala oltre il “muro”. A voler trovare un difetto all’ideazione di Domeworld, dovremmo segnalare una didascalicità dei messaggi e dei contenuti dell’opera un po’ troppo manifesta e autosufficiente per aver davvero bisogno di un’aggiunta da parte degli spettatori: Domeworld parla di Domenico Napolitano e di Frank Dee e, più in generale, della storia e del bagaglio culturale di due artisti campani contemporanei. Un’opera stimolante e coraggiosa di cui si invita a godere.

credits

Testo di Giordano Mare Aldo Saulino

Immagini pubblicate per gentile concessione di Domenico Napolitano e dell’artista Diodati

 

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