Non avevo mai pensato che l’avvicinarmi a qualcosa di nuovo, a un nuovo concetto d’arte potesse crearmi le stesse gioie provate di fronte a una tela.

È il mio giorno feriale, caldo afoso che nessuno si auspicherebbe. Penso a cosa fare:  niente mi dico; dopo il lavoro, l’ozio. E invece decido di avvicinarmi con molta curiosità e scetticismo a un’esperienza nuova e divento partecipe della performance di Marina Abromovic “512 Hours” alla Serpentine Gallery a Londra.

Tra la folla cerco di domandare agli astanti di cosa si tratta, ma siamo tutti accomunati da questo senso di indecisione e di inconsapevolezza sull’evento.È come vagabondare nel vuoto senza aspettative, tra l’attesa di una lunga fila di cui ignoro la durata e il non conoscere né il soggetto, né gli attori della performance. Ci consola solo l’idea che è gratis: quindi siamo liberi di uscire a prescinderne dall’esito. È come avvicinarsi a occhi bendati verso una grande sorpresa. In questa attesa si delineano già i concetti di ciò che vedrò; quanto tempo riusciranno i nostri corpi a sopportare il caldo afoso prima che si apra il sipario? È un’ansia che trapassa da un individuo all’altro. Come comportarci? Ridere o soggiogare a ciò che ci aspetta? Osservo quest’ansia, negli sguardi perplessi, nel frenetico guardare le lancette dell’orologio che scandiscono il tempo che passa, nell’interrogarsi se vale la pena di continuare ad attendere o trascorrere la giornata altrove in qualcosa di più costruttivo. Inconsapevolmente la performance è già iniziata.

Uno dopo l’altro si varca la soglia; poi arriva il mio turno. Mi viene detto dallo staff che spogliarmi dai miei pregiudizi mi facilita la comprensione degli eventi e che devo ritenermi fortunato se non conosco nulla né dell’artista, né di questo genere di arte. Mi viene fatta un’ultima raccomandazione che forse è l’unica regola da seguire. Prima ancora dell’evento devo depositare i miei oggetti personali, videocamera, telefonino, macchinetta fotografica, perché nulla, credo, mi possa rimandare alla realtà esterna. Dimentico l’orologio. Ah sì, soprattutto l’orologio che mi terrebbe vincolato a una dimensione temporale. Il tempo della performance è assente; sarò io a decidere quanto tempo parteciparvi.

Marina Abramović Trailer #512hours from Serpentine Galleries on Vimeo.

 

In uno spazio ridotto all’essenziale, diviso solamente da tre grandi stanze, osservo diverse dinamiche sociali; vedo gente camminare, intercedere a passo lento, chi da solo, chi in compagnia. C’è chi, seduto con le spalle al muro, fissa il niente. Altri in silenzio che attendono di essere iniziati forse a un rito messianico. Altri sorridono, altri come me guardano il tutto con tanta curiosità.

Al centro della sala, su una piattaforma, ci sono astanti che si tengono per mano, a occhi chiusi, quasi come se fossero in uno stadio mediatico, di trance. Respirano lentamente. Osservo un comune denominatore. C’è un silenzio e una pace tra le sale che nessuno osa turbare. Intanto il tempo trascorre, ma nessuno lo percepisce.

Non ci sono oggetti a realizzare quest’opera; i veri (s)oggetti siamo noi con la nostra fisicità corporea e con la nostra metaforica immaterialità. Siamo spogli di ciò che ci terrebbe legati al mondo esterno. Il nostro essere è solo creato dai nostri pensieri e dalla nostra presenza in quel luogo e in quel preciso momento. Ci sono piccoli specchi che alcuni portano con sé tra le mani, contemplando la loro immagine. È strano però come questi ultimi non seguino un’andatura normale. Camminano all’indietro come automi, zombi e si preoccupano di osservare gli altri. Quando cerco di sbirciare la loro immagine e incrocio i loro percorsi “a granchio”, non reggono lo sguardo e cambiano direzione. È come se temessero che la loro identità possa essere rivelata. L’immagine mi rimanda ai personaggi di Fahrenheit 451 di Truffaut.

Sembrano tutti statue viventi, il cui movimento è improvvisato o indotto o telecomandato. Mi chiedo da chi, considerando che il solo elemento tecnologico che ci restituisce alla realtà circostante è una videocamera che ci osserva. È un tentativo questo di rubare l’attimo al presente e di incubarlo in una dimensione temporale per restituirlo forse alla posterità.

Poi intravedo lei. È Marina Abramovic. La riconosco tra la folla dei 160 personaggi , vestita di nero, con la sua treccia lunga e rossetto alle labbra, il viso ceruleo che mi rimanda alla Callas. La osservo mentre si avvicina ad alcuni di noi e bisbiglia qualcosa. Altri l’abbracciano, la ringraziano. Con il suo carattere carismatico e semplice, prende le persone per mano, le posiziona in un angolo, le conduce da una stanza all’altra, suggerisce loro cosa fare. Mi chiedo cosa bisbigli nelle loro orecchie e cosa spinga i partecipanti a mettere in pratica il suo input. La seguo e osservo che accompagna alcuni in una sala attigua. Ci sono solo lettini sui quali la gente si ferma invitata a giacere in un’atmosfera di completa tranquillità. L’unica distrazione è il colore delle coperte con cui si avvolgono; blu e verde contro il bianco onnipresente delle pareti. Non c’è nulla di cromatico che ci rimanda alle forti passioni. L’unico calore è quello generato dalla luce del sole che attraversa le finestre. In questo spazio regna la stasi e la riflessione.
Chi giace sul lettino indossa cuffie, ascolta qualcosa. Spinto da curiosità ne avvicino una alle mie orecchie ma non riesco ad ascoltare nient’altro che la magica sonorità del silenzio; È come se fossi sprofondato negli abissi dell’oceano e risalito in superficie gradualmente ad occhi chiusi. E è qui che inizio ad entrare nel “gioco”. Nulla mi distrae; è il momento di raccogliere le mie energie e di ritrovare me stesso. Poi lo scetticismo mi prende ancora una volta. È questa una forma d’arte? Chi produce arte? L’artista o il fruitore? L’artista è lì presente con noi e partecipa alla sua opera, rendendo noi oggetti e soggetti di questa rappresentazione; è il nostro dinamismo e la nostra energia a creare questo evento.

Risvegliato dal mio silenzio che non riesco più a tollerare osservo Marina uscire da una porta. Ne varco la soglia. Oltre alle coperte, in questa stanza ci sono altri oggetti e forse intravedo una campana che avrei voluto utilizzare per cambiare il dinamismo e interrompere quell’attimo di pace. Sarebbe forse stato parte della performance di cui ero anche io attore? Ho preferito non farlo, ma ho continuato a condividere quell’energia che già tanti altri avevano creato. Cosa sarebbe accaduto poi? Forse il dramma dell’azione è iniziato quando ho lasciato le sale. Non so. Ricordo solo di essere stato attore presente in quella performance solo due ore. Un atto irripetibile che mi ha permesso di vivere nella transitorietà del presente e gioire dei flussi energetici creati in quel momento.

Se il ruolo degli artisti è di lavorare con materiali invisibili, a volte inesistenti per ricrearli e trasformarli e lasciare un messaggio ai fruitori, credo che chi ha avuto modo di assaporare la mia stessa esperienza in 512 ore non può dimenticare di aver trovato se stesso almeno per un momento. E se questo genere di arte induce a riflettere ed arricchisce il nostro essere, colmando il niente con il tutto, allora è equiparabile all’esperienza che ognuno di noi, prima o poi ha vissuto di fronte alle tele di un grande maestro. È come se avessi assaporato un senso di gioia con nulla, nell’estrema semplicità delle mie azioni. Marina Abramovic ha sicuramente trovato un altro seguace per la sua “setta”.

info mostra

512 hours di Marina Abramovic

Serpentine Gallery, Londra

fino al 25 agosto 2014

ingresso libero.

A proposito dell'autore

Giancarlo Napolitano si è laureato in lingue e letterature straniere presso la facoltà di lingue dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, discutendo una tesi letteraria di natura sperimentale sugli spazi e i tempi nell'Assommoir di Emile Zola, rivisitando il romanzo in chiave psicanalitica. Ha sempre nutrito un vivo interesse per l'arte, in particolare per quella rinascimentale. Vive da anni a Londra e ha potuto coltivare questa passione con continue visite alla National gallery che ha sempre considerato come una sua seconda dimora. Di carettere inquisitivo si interroga sulle opere degli artisti, continuo assertore del progresso, vede in ogni opera contemporanea un ponte con il passato con il quale rapportare ogni sua esperienza quotidiana.