Donne e arte, un rapporto difficile fino all’età moderna: poche le eccezioni che confermano la regola, come la poco conosciuta Judith Leyster.

La ricorrenza della Giornata della Donna porta sempre oramai con sé tutta una serie di riflessioni sulla storia, il senso e il carattere di questa celebrazione in cui il problema della parità tra i generi sembra aver preso caratteri diversi da quelli per i quali essa nacque. Senza voler entrare nel merito dell’annosa questione, nelle varie posizioni sembra sempre emergere l’idea che il successo femminile sia legato necessariamente a un conflitto di genere con gli uomini – il che spesso ha rappresentato una realtà contingente – più che ad un più complesso conflitto con le convenzioni sociali più limitanti per le donne.

Judith Leyster . La proposta

Judith Leyster . La proposta

Qui si vuole ricordare come le donne, anche nel mondo dell’arte, abbiano dovuto faticare per emergere, condizionate da mille ostacoli, quali la contrarietà o il boicottaggio di genitori, compagni, mariti, parenti maschi che avessero altri piani per loro; dai maschi, insomma, più che dai modelli sociali prevalenti. La prima artista donna di successo nel mondo della storia dell’arte occidentale compare non prima della seconda metà del Cinquecento, ed è Sofonisba Anguissola, che, con Lavinia Fontana e Marietta Robusti, rimarrà quasi un caso isolato fino agli inizi del XVII secolo. Il Seicento vede la comparsa di una serie di figure, quasi leggendarie, di pittrici tragiche o dai contorni biografici non ben definiti: Elisabetta Sirani, Ginevra Cantofoli, Diana de Rosa. Su tutte, Artemisia Gentileschi. Nei secoli successivi, il numero delle artiste celebri aumenta, ma si preferisce raccontare sempre le figure dal vissuto tragico: dalla scultrice Camille Claudel, che fu la sfortunata amante di Rodin, a Berthe Morisot, che faticò moltissimo per ottenere la visibilità e i riconoscimenti dei suoi amici Impressionisti, fino a Frida Kahlo e ai suoi mille dolori. Piace, di queste storie, l’idea della sublimazione del dolore che l’arte converte in splendidi capolavori, l’idea dell’insuccesso in vita che si riscatta nella gloria e nella fama postume, incentivando la convinzione generale per cui la via per un risultato eccezionale passi per eccezionali sofferenze e nel caso delle donne, ancora di più.

 

Judith Leyster - Giovane flautista

Judith Leyster – Giovane flautista

Per questo, ci si aspetterà che parli di Artemisia Gentileschi, o di Frida Kahlo. Ma io non voglio ricordare loro. Ho deciso piuttosto di parlarvi di Judith Leyster (1609-60). Figlia di un birraio fallito, il padre non la diede in sposa a un riccone per sistemare sé e lei, ma la lascia dipingere liberamente. Lei, stregata dalla maniera dei caravaggeschi di Utrecht, divenne seguace di “Gherardo delle Notti” Van Honthorst, Terbrugghen e soprattutto del grande Frans Hals. Si specializzò su generi di facile mercato: ritratti, suonatori, quadri di feste, di partite a carte, nature morte, memento mori. Per realizzare questi quadri, frequentava liberamente le locande più malfamate, probabilmente da sola. Nessuno gridò allo scandalo. Nel 1631 dipinse Una proposta, in cui ritrae una donna che tesse (una lavoratrice), dagli abiti semplici, che snobba e respinge le prezzolate offerte amorose di un uomo dalla faccia da satiro. Nessuno si offese.

 

Judith Leyster - selfportrait

Judith Leyster – Autoritratto

Se ne conosce un autoritratto (qui una versione web ad alta risoluzione) in cui la Leyster testimonia tutto il suo coraggio e la sua consapevolezza di sé. Non si finse nei panni di qualcun altro, come Artemisia, non si ritrasse languida e dimessa come Sofonisba Anguissola, oppure sofferente. No, la troviamo seduta comoda sulla sedia, rilassata perché si sta prendendo una breve pausa dal lavoro che sta ultimando (ha ancora il pennello in mano); lavoro che la rende autoconsapevole, emancipata, ricca: guardate le ricche vesti, il collare e la cuffia da passeggio! Sorride con aria sorniona, sta dicendo a tutti i ricchi collezionisti, mercanti e amatori d’arte che la stanno guardando e apprezzando che vale esattamente quanto loro, forse anche di più. Siamo appena al 1630: l’Autoritratto su Cavalletto di Annibale Carracci, opera ritenuta essere la massima rivendicazione della dignità intellettuale del mestiere di artista nel Seicento, risale ad appena 26 anni prima. Judith Leyster ebbe fortuna: a 24 anni aveva la sua bottega ed era già membro dell’Accademia di San Luca della nativa Haarlem, segno del fatto che si era pienamente inserita nell’establishment artistico della sua ricca città.
A 27 anni sposò un pittore coetaneo dal temperamento e dalle scelte stilistiche molto simili ai suoi, Jan Miense Molenaer. Fu un matrimonio d’amore. Lei divenne meno prolifica, ma non smise di dipingere, malgrado i 5 figli che divennero i protagonisti esclusivi dei suoi successivi quadri allegorici. Fu una scelta sua: fu lei a credere tanto nel marito il quale, dopo il matrimonio, divenne più bravo, più celebre e più apprezzato, anche per la riconosciuta influenza stilistica della moglie. Per un periodo riuscirono a trasferirsi e a lavorare perfino ad Amsterdam, la capitale. Morì agiata e presumibilmente felice e soddisfatta di sé nella natia Haarlem a poco più di 50 anni.
Nonostante la popolarità raggiunta in vita, in effetti, Judith Leyster fu presto dimenticata dopo la morte, come accadde a moltissimi validissimi artisti di quel secolo. Ma nel 1893, si scoprì che un dipinto, acquistato dal Museo del Louvre, presentava, nascosto sotto una falsa firma di Frans Hals, il suo caratteristico monogramma, costituito dalle iniziali JL con accanto una stella a cinque punte. Si iniziò così a rivalutare l’opera di quest’artista, spesso confusa con quella del più famoso Hals. Oggi se ne riconoscono una ventina di opere, conservate soprattutto in Olanda, al Rijksmuseum di Amsterdam, alla Mauritshuis de L’Aia, al Museo Hals di Haarlem, ma anche al Louvre, alla National Gallery di Londra e alla National Gallery of Art di Washington, negli Stati Uniti.
Ho scelto di parlare di Judith per rivendicare il fatto che, quando c’è la libertà – e le Province Unite del XVII secolo erano un paese veramente libero – identità e dignità di genere non devono per forza significare sofferenza, disagio o conflitto con gli altri.
Viva le donne, viva gli uomini, viva tutti coloro che rendono libero, vario e colorato il mondo.

Judith Leyster - Partita a carte

Judith Leyster – Partita a carte

A proposito dell'autore

Laureato in storia dell'arte alla Federico II di Napoli, ormai vicino ai 28 anni, gira l'Italia da quand'era bambino. Fu così che si innamorò della storia, della geografia, dei centri storici e dei colori - e che paese colorato è il nostro! In cerca di fortuna come un bucaniere o un artista curtense, collabora di tanto in tanto, con la fortissima, dice, rivista Racna Magazine.