Il nostro stupore condiviso, lo stupore del mondo, si è appuntato dall’8 marzo 2016 sul ritrovamento e l’attribuzione a Caravaggio di una tela di grandi dimensioni. Il motivo ulteriore dello stupore per l’evento, l’aver avvertito un’inclinazione nell’asse di rotazione dell’arte occidentale, lo si deve al tema iconografico che magnifica il dipinto e che in esso magnificamente vi fiorisce: il tema o motivo iconologico dell’erezione di Cristo è appeso al di sotto del perizoma e delle vesti bianche che il Cristo indossa sulla croce o nei lini della deposizione.
Una tradizione precede Caravaggio, almeno dal Rinascimento, che non negò all’Incarnazione l’estremo attributo della carne. Dell’Uomo dei dolori (1532) appunto, un ciclo di tre tele di Maarten van Heemskerck, la più nota è proprio il Cristo dei dolori più estremi, più riposti, un Cristo seduto tra gli angeli della deposizione. Al di sotto di una luce chiusa, senza sfondi, di alone rossastro, un cartiglio in alto annuncia Ecce Rex Veriter, e lungo l’asse centrale del quadro, in basso, un alito divino rigonfia il panneggio metallico del lino intorno al bacino. Il ventre di un Cristo nordico, lombardo, duramente disegnato dalla linea, contornato dal suo vigore, e dal suo fulgore di erezione: una spinosa teologia della morte. Oppure si tratta di un segno della Resurrezione? Una fertilità della morte propiziata da balsami e secrezioni, un ricordo dell’amplesso di Iside con suo fratello, smembrato e sepolto nel limo d’Egitto? O una teologia dell’umanità di Cristo?
Mentre il Rinascimento ha scoperto progressivamente il corpo del Redentore, anche il sangue della circoncisione subita otto giorni dopo la nascita veniva ricondotto profeticamente al sangue della croce, al sangue versato per noi e per tutti. Lo stesso sangue che emana dal costato scivola lungo il fianco nelle crocifissioni, e finisce la sua corsa lungo l’inguine, in ricordo dell’incisione, il primo e l’ultimo dolore uniti insieme.

Caravaggio, ritrovamenti

Illustrazione di Roberta Garzillo

Prima che la Controriforma coprisse di nuovo il nudo di Cristo, la tela del Caravaggio che noi oggi rivediamo è stata forse l’ultima libertà che Roma si concesse, l’ultimo scandalo di cui poi ebbe paura. E ne fece sparire anche le tracce, da qualsiasi archivio, da qualsiasi inventario. Fino ad oggi nessun documento noto ha mai contenuto una testimonianza sia pure indiretta dell’esistenza di quest’opera. L’ipotesi di datazione proposta dalle prime analisi colloca il dipinto in modo molto preciso tra il 1600 e il 1601, o l’anno successivo, subito dopo il ciclo di San Matteo per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Del Martirio di San Matteo conserva l’impeto irrorato del braccio del carnefice, la presa salda, mano contro polso. E la luce calda che esplora i corpi in furia conserva quel misto di stupefatto terrore che è degli astanti nel San Matteo, come dei soldati romani in questa flagellazione interdetta dal membro imperioso. Un enigma esplicito a metà tra la flagellazione misterica di Piero della Francesca e quella ginnica di Michelangelo, e dello stesso Caravaggio nel dipinto noto di Capodimonte.

La scoperta fatta oggi ci restituisce probabilmente la più bella orazione divina, il più grandioso dei Magnificat. Questa nuova tela di Caravaggio ci sconvolge con quella grazia che ci era già nota. Il Cristo più sensuale dell’arte occidentale, e non solo di quella premoderna, più compromesso e più irriconoscibile del Bacco malato, più obliquo e più inatteso del cavallo di San Paolo irrorato di luce. Una presenza non oscura, non intaccata dalla flagellazione, integra nel colore dell’incarnato perfettamente conservato, luminoso e vivo. Un dio non greco ma asiatico, appoggiato alla colonna del martirio, circondato dai romani in armi. Non uno sputo lo sfiora, né una freccia lo coglie, pure dovuta alla sua posizione di San Sebastiano, solo una colonna li avvince, tutti legati in un unico mistero.

 

Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.

A proposito dell'autore

Studioso di letterature comparate è autore di prose critiche su oggetti immaginari, dalle opere d’arte pubblicate in esclusiva per Racna alle recensioni di film mai esistiti apparse su «Le Parole e le Cose» e «Nazione Indiana». Del 2017 il suo primo libro di poesia Per l'odio che vi porto edito da Oédipus. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich.