La personale di Francis Alÿs al Madre, dal titolo Reel-Unreel, si avvale di una pluralità di codici espressivi intrecciati tra di loro: pittorico, scultoreo e cinematografico.
Al pianterreno, in una stanza, Re_pubblica Madre, tappezzata da materassi e cuscini, è trasmesso il video Reel-Unreel, che introduce fin da subito lo spettatore al tema principale della mostra.

Prodotto nel 2011 per doCUMENTA (13), il filmato riprende le immagini di bambini afghani di Kabul nell’atto di srotolare e arrotolare contemporaneamente (reel-unreel, per l’appunto) una pellicola nella città vecchia: un atto che coinvolge più protagonisti, assomigliando quasi al passaggio del testimone, e che rievoca un gioco popolare ormai dimenticato e allestito con mezzi di fortuna, come quello del cerchio.

Il video è girato in modo volutamente amatoriale e crea nello spettatore un disagio quasi fisico, inglobandolo nella precarietà che si respira in una città la cui vita è continuamente scossa dall’instabilità politica e dalla guerra.
Nello sfondo è possibile distinguere un paesaggio fittamente urbanizzato e neutro: l’ocra degli edifici si fonde con l’ambiente circostante. Strade irte, irregolari, difficili da percorrere, alture impervie, palazzi diroccati. Non è una visione patinata, quella che Alÿs offre di Kabul: pur nella quiete delle immagini raffiguranti scene di vita quotidiana, si percepisce la difficoltà della sopravvivenza.
Al termine del filmato, la pellicola finisce fuori strada e precipita in un burrone; un ragazzino la recupera e la arrotola, quasi a evocare un ciclo di perenne ripetizione del fare e disfare (doing, undoing).
Un gesto simbolico che si ricollega agli eventi che hanno spinto l’artista a girare il suo breve documentario: il finale spiega come il 5 Settembre 2001 i Talebani abbiano confiscato numerosi film con l’intento di bruciarli pubblicamente. Tuttavia ciò di cui disponevano erano le copie, non gli originali e sembra che sia proprio questo ad aver arginato i tagli della censura.

La frase che chiude il video – “Cinema: ogni altra cosa è immaginaria” – si ricollega alla seconda parte della mostra, composta dai Progetti Afghani che includono bozzetti di vita quotidiana, foto, mappe e carte geografiche, cartoline.
Su alcuni bozzetti è possibile notare la presenza di codici a barre colorate (colour bar paintings) che rendono impossibile la visione totale dell’opera: una specie di interferenza che si sovrappone al tentativo di rappresentazione del reale.
Ciò sta a raffigurare la disinformazione dilagante in Occidente in merito alla situazione in Afghanistan: è impossibile ricevere il segnale degli avvenimenti, in nome di una visione parziale e immaginaria per l’appunto, che i nostri media spesso ci conferiscono.
Sfruttando l’assonanza tra unreel e unreal (irreale), Alÿs illustra come esistano ben altre forme di censura: oltre a quelle basate su forme di coercizione, esiste la censura della disinformazione e della distorsione del reale.

È così che l’artista si spinge oltre al limite del paradosso e Paradox of Praxis è appunto il titolo di un altro video del 1997, girato a Città del Messico. In questo filmato, che fa riferimento all’atto pratico della scultura, Alÿs è ripreso mentre attraversa la città, trascinando un enorme pezzo di ghiaccio fino al suo totale scioglimento. Nonostante i suoi sforzi, il gesto è vano, dal momento che il ghiaccio s’è dissolto senza lasciare alcuna traccia.
Si potrebbe quasi azzardare un paragone con il filmato precedente, paragonando la vanità del gesto dell’artista al fallimento dell’intervento militare in Afghanistan.

Guarda la fotogallery della mostra a cura di Anna Maria Saviano

In The Green Line (2004) Alÿs segna con un barattolo di vernice verde i confini della città di Gerusalemme durante una passeggiata di 2 giorni effettuata nel Novembre 2011.
Come spiega Meron Benvenisti, in City of Stone; the Hidden Story of Jerusalem, nel dicembre del ’47 si verificò uno scontro interno alla città di Gerusalemme tra arabi e israeliani e la città fu divisa su due linee di frontiera, i cui confini furono segnati su una mappa: una linea verde stabiliva i territori appartenenti agli israeliani, una rossa segnava quelli destinati ai palestinesi. La linea rossa rappresentava una striscia di terra larga 80 metri appena.
A chiusura del video, Alÿs sostiene che “Sometimes doing something poetic can become political and doing something political can become poetical”: talvolta l’atto poetico può diventare politico e viceversa, e i due atti possono corrispondersi.
Un intreccio che ha lasciato visibilmente traccia di sé in tutta la personale.

 

(Articolo di Paola Saviano)