Ai Weiwei presenta in anteprima assoluta il suo ultimo documentario, The Rest, al festival di Copenaghen, CPH DOX 2019, il 22 marzo 2019, in un cinema Imperial gremito di fan e curiosi e preannuncia l’arrivo di un terzo capitolo ambientato in Bangladesh.

The Rest può essere considerato un’appendice, piuttosto che un sequel, di Human Flow uscito nel 2017, e prende vita dalle stesse 900 ore di girato. Rispetto al precedente abbandona ogni intento didascalico o visionario e si concentra, da un lato sul livello personale e sulle singole storie che i migranti portano con sé, e dall’altro riduce il suo raggio geografico all’Europa, tra Turchia e Grecia, Italia, Francia e Gran Bretagna. Ma non è irrilevante che la prima mondiale di questo documentario abbia luogo proprio nella felice Danimarca.

Quest’ultimo lavoro di Ai Weiwei si caratterizza per la mancanza di effetti speciali, di colpi di scena o di novità, la telecamera si “abbassa” spesso all’altezza degli occhi e a un livello di documentazione realista, che costringe lo spettatore ad un faccia a faccia continuo con i suoi protagonisti, in claustrofobici racconti che lo sguardo non può evitare.

Si parte subito, in medias res, con quella che forse è la più toccante delle storie raccontate, il recupero a mare del corpo di un bambino e la storia di una famiglia di 13 membri, per lo più infanti, dispersi e introvabili nei fondali del mare tra Grecia e Turchia. A questa segue, per 79 minuti, una carrellata di scene tra cimiteri di corpi mutilati e senza nome, guerriglie e proteste, storie personali di migrazione e di lotta per la sopravvivenza in tendopoli dove facili si perdono umanità e dignità.

Un migrante racconta il suo desiderio di ricongiungersi coi suoi cari in Inghilterra – frame da The Rest di Ai Weiwei

In definitiva lo spettatore, almeno quello più smaliziato, potrebbe pensare di averne anche abbastanza: quanti documentari, film, reportage, servizi fotografici, sono fioriti in questi pochissimi ultimi anni intorno al tema dei migranti e dei rifugiati? Quante delle immagini di The Rest abbiamo già visto e rivisto, se non siamo rimasti chiusi in una bolla? Quanto l’autore indugia sulla retorica facile delle vittime senza indagare? Tanto che è lecito chiedersi che senso abbia questo documentario, soprattutto dopo il precedente, esemplificativo ed esaustivo Human Flow.

Un’immagine da “Human Flow” di AI Weiwei

Per comprendere al meglio The Rest bisogna distaccarsi dall’empatia dei suoi protagonisti, e guardare questo lavoro in filigrana, forse decontestualizzarlo dal contingente, per rendersi conto che più che un semplice film sui rifugiati, The Rest è un film sulla cattiveria umana e sull’indifferenza.

La stessa indifferenza degli automobilisti che guidano le macchine e i camion che procedono nel loro tragitto senza curarsi delle baraccopoli o del manipolo di africani in protesta davanti ad una chiesa, la stessa dei poliziotti che annientano la tendopoli di Calais, o del funzionario che comunica i dettagli di viaggio al padre di famiglia che ha deciso di riportare i suoi nove figli indietro a Baghdad.

Non è un caso che nel Talk, a seguito della proiezione, con Michael Thouber – direttore del Kunsthal Charlottenborg Ai Weiwei ribadisca più volte che questo è un film sulla realtà, “una realtà in cui siamo tutti coinvolti e che ci obbliga a pensare nel lungo periodo e a concetti come umanità e dignità in un contesto spaziale globale”.
Il documentario acquisisce la sua ragion d’essere come atto d’accusa contro l’Unione Europea. E contro i suoi cittadini e la sua intellighenzia, la stessa che forse punta il dito contro accusando l’autore di essere venuto a patti con il regime autoritario cinese.
In The Rest sono i migranti stessi a dialogare con lo spettatore, mettendosi in gioco in maniera viscerale, talvolta disturbante. Sono loro a chiederci “è questa la ricompensa che otteniamo per l’umanità che diamo al mondo?” e a dirci “è difficile credere che questa sia Europa“. E del resto, cosa sia Europa di questi tempi, forse non lo sa neanche il più convinto europeista.

Ai Weiwei

Michael Thouber intervista Ai Weiwei

Incalzato dalle domande del suo intervistatore Ai Weiwei ci chiede “Cosa vi rende orgogliosi della vostra società? Cosa vi fa credere che non sia solo un’illusione – una favola come quella della Danimarca felice?”
E ancora, “gli europei sembrano ancora incagliati in una modalità di pensiero che ha le sue radici nella guerra fredda, non riescono a percepire il mondo nella sua globalità. I politici che separano le persone evitano di affrontare il vero problema.
Ci siamo dimenticati dell’umanità. Questa in atto non è una crisi di migrazione, è una crisi umana. E in quanto esseri umani siamo tutti parte del problema.
Umanità e diritti umani sono un’unica cosa, altrimenti i diritti umani sono una bufala“.

 

A proposito dell'autore

Laureato con lode in comunicazione all’Università degli studi di Salerno, lavora per portali web di informazione. E' presidente dell'associazione culturale Componibile62 attiva nella promozione dell'arte contemporanea e di progetti di mobilità giovanile, collabora per la rivista di poesia Levania.