Frontale e vestito di pelliccia come nel più celebre autoritratto del 1497, con il monogramma della firma e l’iscrizione identica «Io, Albrecht Dürer di Norimberga, all’età di 28 anni, con colori eterni ho creato me stesso a mia immagine», eppure diverso, l’autoritratto appena scoperto è già al centro di polemiche e scetticismi sull’attribuzione. In primo luogo alcuni problemi di datazione. L’autoritratto non sembra databile al 1497, pur attestando con evidenza la stessa firma e la stessa iscrizione dell’autoritratto datato con certezza al 1497. In questo caso l’analisi al carbonio sembra spostare in avanti la datazione addirittura di un secolo, alla fine del Cinquecento. Contrastano con questa datazione così avanzata anche la postura del pittore ritratto in una posa identica a quella dell’Autoritratto con pelliccia, e l’intera composizione dell’immagine, così affine, per tecnica e intenti, alla celebre imago Christi che conosciamo. La difformità rispetto al dipinto conosciuto è costituita da una donna di profilo sulla destra, accanto al busto frontale del pittore, un corpo profilato, bianchissimo e che contrasta nel suo chiarore nudo con la massa imponente del corpo maschile coperto, avvolto nella pelliccia pregiata. Perché in questo caso non si tratta di un vestito di buon taglio con gli orli di pelliccia, ma di una pelliccia vera e intera, una giacca fatta di sola pelliccia bruna. La donna di profilo è molto vicina al corpo al centro del ritratto, quasi si sovrappone ad esso, è a contatto con la pelliccia che lo riveste. Il volto di Dürer, o dell’uomo identico a lui, con i capelli lunghi inanellati e di un biondo brunito, come profumati d’oli, è impassibile e guarda davanti a sé, con sguardo assente e assorto, leggermente volto verso la sinistra di chi lo osserva. La mano in basso, unico lembo di pelle scoperto, insieme al viso, nel volume corporeo dell’uomo, è in una posizione simile a quella dell’Autoritratto con pelliccia, simile, non identica. Mantiene l’apertura delle dita che ricorda la benedizione del Cristo pantocrator di tradizione bizantina, ma tra le dita trattiene, sfiora appena e racchiude il capezzolo, e quasi la punta del seno della donna che gli è accanto. La donna è quasi perfettamente allineata di profilo, di tre quarti appena accennati con le spalle, il suo seno – in maniera impercettibilmente innaturale – viene a trovarsi all’altezza della mano benedicente. A un’osservazione più prolungata si può ipotizzare che lei si trovi su un piano più in basso rispetto all’artista ritratto.

“Durer a seno nudo” – Illustrazione di Roberta Garzillo

Ad aggiungere perplessità e sconcerto rileviamo che la donna sembra avere freddo; la sua espressione, la curvatura accennata della schiena e del bacino sembrano esprimere l’esigenza di riscaldarsi al contatto con la pelliccia di lui. Sul viso di lei un’ombra di sofferenza, ma indifferente, distratta, di tipo animale, mossa da bisogno fisico più che da attenzione per il contatto tra il suo seno e la mano di lui. Allo stesso modo in analoga, minima alterazione delle proporzioni, il seno appare in un rilievo eccessivo al centro prospettico del dipinto, così come viene a trovarsi nel suo centro cromatico. La luce, piatta, chiara, lievemente dorata, si concentra intorno a quel seno, lo mette in rilievo, ci fa scorgere la sua grandezza inconsueta, la sua abbondante sproporzione manierista, una sproporzione di cui non ci si accorge subito.
Inevitabile che il dipinto appena scoperto sia stato subito accostato al celebre ritratto manierista di Gabrielle d’Estrées e di sua sorella, dipinto anonimo ascritto alla Scuola di Fontainebleau e datato intorno al 1595. Ritratte a mezzo busto, immerse in una vasca, nude una di fronte all’altra, equidistanti tra loro e dal centro prospettico dell’immagine, la bionda Gabrielle d’Estrées è raggiunta dal movimento allungato del braccio della Duchessa di Villars che le dà un pizzicotto al capezzolo destro. In fondo, nel punto di fuga, una donna che cuce indossa un abito rosso come rosse sono le tappezzerie dei drappeggi che fanno da quinta scenica e potenziano il senso di profondità di un quadro che è tutta frontale superficie. Più indietro ancora la cornice in ombra di un camino monumentale e un quadro intravisto a metà, quasi un Giorgione, un uomo in calze di seta con le gambe semiaperte. In questo caso l’interpretazione è stata semplice, Gabrielle D’Estrées era l’amante di Enrico IV, la duchessa, sua sorella, toccandole il capezzolo le indicava la futura discendenza regale che da lei sarebbe venuta dopo le nozze con il sovrano.
Analogo sembra essere l’impianto interpretativo proposto per questa inedita declinazione iconografica, che sembra tra l’altro non attestata altrove. Il pittore tedesco, nelle vesti di Cristo benedicente, nel gesto delle dita intorno al capezzolo della donna sembra alludere al matrimonio mistico del Redentore con la sua Chiesa. Alcuni propendono anche per suggestioni minori, a volte grottesche, che vedrebbero nel tocco delle dita una prefigurazione della Resurrezione di Cristo e un’inversione semantica del noli me tangere rivolto a Maddalena, la prima a vedere il corpo risorto. Ulteriori ipotesi propenderebbero per un’allusione al latte materno della Vergine, madre di Cristo.
Restano tuttavia da spiegare la profonda freddezza dell’insieme, e la contrastante sapienza erotica del disegno, della linea e del colore. Votiva e bizantina, ieratica e frontale, divisa in due anche nella distribuzione delle masse di luce, la tela appare un enigma temporale e teologico. Profondamente sacra, eppure mondana – sacra nell’allusione cristologica, mondana nell’esaltazione del magistero dell’arte sentito in ogni dettaglio ed esibito nell’iscrizione – l’opera, quasi un’icona, figura una doppia natura e la incarna nella bicromìa delle due parti. A sinistra la massa scura del corpo di Dürer, a destra il bianco del corpo nudo della donna, da un lato il volto e la postura impassibili, dall’altra l’espressione di sofferenza e il movimento accennato per la morsa del freddo. Ma la percezione, la nota di fondo che suggerisce l’intero paesaggio visivo del dipinto è quella di un’impercettibile linea di violenza, una sfumatura del tutto antifrastica rispetto all’accordo di armonie fondato sull’interpretazione simbolica. Il collante che unisce i due corpi reali è un gioco di potere, l’impassibilità di lui è crudeltà fin nella linea della bocca, nella ripugnanza nascosta nel tocco delle sue dita, ripugnanza unita a sensualità animale. Così come sembra essere in uno stato di minorità e paura il corpo svestito di lei, sottomessa nel suo essere nuda all’abito di taglio severo e barbarico di lui, spinta dal freddo a cercare un contatto con le pelli, e condannata a non ricevere un cenno se non di appropriazione, di manipolazione. E nonostante questo rifiuto la donna conserva un’attrazione esplicita, erotica nel suo accostarsi a lui.
Un’ombra di sadismo sembra quindi essere il segreto del nuovo autoritratto düreriano, apparso con inspiegabile ritardo nella storia, ma destinato ad occupare un posto nell’immaginario occidentale ancora più grande di quello occupato dagli altri autoritratti noti.


Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.

A proposito dell'autore

Studioso di letterature comparate è autore di prose critiche su oggetti immaginari, dalle opere d’arte pubblicate in esclusiva per Racna alle recensioni di film mai esistiti apparse su «Le Parole e le Cose» e «Nazione Indiana». Del 2017 il suo primo libro di poesia Per l'odio che vi porto edito da Oédipus. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich.