Incontro con Giovanni Piperno, il regista che insieme ad Agostino Ferrente ha diretto il film documentario Le cose belle. Un lavoro intenso e innovativo, a metà strada tra fiction e documentario, che racconta la vita reale di quattro ragazzi “visitati” e seguiti dalla telecamera più volte a distanza nel corso del tempo, dai dodici anni fino all’età adulta. Ne viene fuori un affresco sincero e appassionante, una riflessione senza retorica sulla bellezza triste che le città come Napoli si ostinano a conservare.

Questo film nasce da un progetto molto particolare, ce lo spieghi?

Nel 1999 la Rai ci commissionò un documentario per la prima serata, e partimmo subito con il casting. Facevamo annunciare in spiaggia e nei parchi acquatici che la Rai cercava ragazzi per un film, e ovviamente tutte la madri ci mandavano i figli a frotte. Impiegammo la maggior parte del tempo a individuare le persone giuste, e ci rimase relativamente poco tempo per fare il film. Avevamo voglia di approfondire le vite dei quattro ragazzini tra i 12 e i 14 anni che alla fine avevamo scelto – Adele, Enzo, Fabio e Silvana – così insegnammo loro a usare la telecamera, e per due o tre anni si filmarono da soli nella vita di tutti i giorni. Nessuno di loro era ed è attore, e ciò che vediamo è come sono loro realmente. Un film che è l’esito della fiducia totale che abbiamo investito l’uno nell’altro; una fiducia che si è mantenuta grazie al rapporto di amicizia che siamo riusciti a instaurare con i ragazzi, e che ci ha permesso di tornare a filmarli dieci anni dopo, nel 2009, quando grazie al cofinanziamento della Regione abbiamo avuto la possibilità di continuare questo progetto, che ormai immaginavamo concluso, per altri quattro anni. Li seguivamo per due, tre, quattro giorni, e poi li lasciavamo alle loro esistenze, che nel frattempo avevano messo nelle nostre mani, così come noi avevamo fatto con le nostre. Questo film è uno specchio della vita, e con esso abbiamo sperato di poter smuovere qualcosa nelle vite di questi ragazzi, anche solo la voglia di scuotersi e uscire dalla paralisi, per dare qualcosa in più sia alla narrazione sia alla realtà. E bisogna dire che nel medio e lungo periodo – il documentario è stato presentato a Venezia già nel 2012 – il film ha fatto bene a tutti.

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A Napoli e fuori Napoli dei napoletani si nota spesso l’ironia che accompagna la disillusione e la rassegnazione. Appare anche nel vostro documentario?

L’ironia è una cosa bella, diversa dal fatalismo e dal cinismo, ed è indispensabile all’esistenza. Noi abbiamo cercato di mantenere leggerezza e divertimento all’interno del documentario, anche se rimane un film tosto. Soprattutto la seconda parte, quella dei ragazzi adulti. Nelle riprese del ’99 i personaggi erano bambini, e si rideva tanto. Poi tutto è diventato più doloroso. Ma abbiamo sempre evitato che l’autorappresentazione della “napoletanità” in stereotipi avesse la meglio, che i cliché si appropriassero della scena. È stato proprio grazie alla relazione profonda che abbiamo avuto coi protagonisti che qualsiasi rappresentazione falsata o atto inautentico è diventato impossibile. Piuttosto abbiamo dovuto fermare l’irrompere di tutto ciò che era intorno che a volte ha cercato di sfondare la cornice delle inquadrature; e quando è capitato l’abbiamo eliminato dal prodotto finale, non ci interessava.

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È molto evidente in tutto il film, ed è forse questa la parte più dolorosa, che i ragazzi hanno una forte consapevolezza dell’immobilità delle loro vite, soprattutto in alcune scene, come nei silenzi lunghi, negli occhi dagli sguardi intensi. Se e come avete costruito questa immobilità?

L’immobilità ce la siamo ritrovata davanti. Nel ’99 però già si stavano gettando i semi per una crescita artistica a Napoli, che ora infatti dà i suoi frutti. In quegli anni sono nati i laboratori teatrali da cui stanno venendo fuori i giovani attori che ora troviamo nelle fiction famose. Per quanto riguarda la musica, Napoli dovrebbe essere la Nashville d’Italia: si dovrebbe creare un’industria per dare giustizia al patrimonio musicale immenso della città. Nessuno pare mettere a sistema tutto questo.

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Si parla tanto di bellezza ultimamente. “Bellezza” è un termine che sta tornando di moda – al cinema, con Sorrentino, ma anche in altri campi di arte e letteratura. È un ritorno alla riappropriazione di qualcosa, in maniera molto banale, o c’è dell’altro?

Credo non sia una cosa nuova. In Italia siamo abituati alla bellezza, e c’è sempre stato il desiderio di goderne. Direi che è un caso che la parola “bellezza” appaia in due film italiani degli ultimi anni. A ogni modo già nel 2008 il nostro film aveva questo titolo, che è nato da una battuta particolarmente significativa, il silenzio di una mancata risposta che uno dei protagonisti fa pesare alla fine del film. In fondo ciò che vediamo in questo documentario è vero di molta altra Italia. Abbiamo scelto Napoli perché Napoli è l’Italia al cubo.

 

(Articolo di Paola Di Gennaro)

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