Al Palazzo delle Arti di Napoli è in esposizione il lavoro di Henri Cartier-Bresson, genius della fotografia per la prima volta presentato nel capoluogo partenopeo. L’occasione della mostra ha riaperto il dibattito sul significato del fotografo francese: per Andrèa Holzherr di Magnum Photos, egli ha creato una estetica “troppo alta” per essere superata; per Aniello Barone, docente della cattedra di Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, il quale dubita ci sia stato altro nell’arte fotografica dopo il suo lavoro.

VALENCE ESPACE 1933
La mostra non è su Henri Cartier-Bresson bensì di Cartier-Bresson, precisa Simona Perchiazzi, curatrice della mostra voluta fortemente da Gaetano Daniele, assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli: le 54 fotografie in esposizione sono tutte originali dalla collezione della fondazione Henri Cartier-Bresson, che ha vagliato la conservazione dell’impianto metodologico che lo stesso artista ha sviluppato con le pubblicazioni autografe, tra le quali “The Mind’s eye”, raccolta pubblicata nel ‘99. Il titolo della mostra, The Mind’s eye, sintetizza i capolavori esposti come la summa dei risultati che i testi dell’omonimo compendio descrivono meglio di qualunque faziosità critica e posteriore, per le quali non è stato lasciato spazio. Infatti il lavoro di sottrazione nella narrazione, asciutta, realizzata nel criterio espositivo sviluppato ad hoc dal progettista Mauro Buongiovanni, fanno delle stanze del Pan il catalogo (omissis dell’operazione) praticabile, un atlante percorribile per aree tematiche delle più grandi fotografie di Henri Cartier-Bresson. La mostra apre con la stanza delle didascalie murarie tra le quali è riproposto un documento autografo dell’artista, un atto costitutivo della sua Fotografia riprodotto e ingigantito nella grafia dello stesso autore. Seguono le opere celebri, tra le quali ‘il salto’ di “Gare saint Lazare”, una delle icone del ventesimo secolo, le fotografie realizzate in Spagna e in Italia, le disquisizioni sui corpi, le devastazioni della guerra, le foto di reportage in Medio Oriente e nell’Asia estremo orientale e i landscapes, animati dalle intrusioni umane che in tutte le foto vitalizzano la fotografia come uno spazio teatrale del “momento decisivo”: il momento, segnato acusticamente dall’otturatore della Leica di Cartier-Bresson, pazientemente atteso come in un bird-watching della “frazione di secondo” in cui, scrive l’artista, avviene il “riconoscimento simultaneo […] del significato di un evento”, il suo apice.

RITRATTO BRESSON
Durante la visita inaugurale Andrèa Holzherr si sofferma sulle spirali suggerite dai tagli delle inquadrature posti sulle estrusioni dei corrimano in ferro e dai richiami nello scatto presso Aquila degli Abruzzi: enunciato visivo del ricercato gioco compositivo che Henri Cartier-Bresson ha inseguito con perfezionismo. Aniello Barone, per sua parte, sottolinea come lo scatto delle due donne a Mexico City del 1934 e quello di Sifnos, in Grecia del 1961, si guardino da due parti diametralmente opposte nella evoluzione artistica di Cartier-Bresson così come nella loro posizione espositiva. La prima foto è emblematica del giovane Cartier-Bresson, già pioniere del foto-reportage ed esempio nella stampa e nella composizione fotografica, ma meno strutturato nello sguardo. Questa foto è anteriore al momento di teorizzazione che lo porterà al secondo scatto, atteso e composto, constatazione di un Cartier-Bresson riappacificato in una fotografia operativamente pitturalista, in accordo con il proprio contesto formativo dello studio di pittura dello zio e della cultura surrealista di André Lhote e dell’editore Triade di Parigi. Il bianco e nero, cifra del linguaggio di Cartier-Bresson, rappresenta una scelta stilistica matura, frutto di quella consapevolezza che associa storicamente e concettualmente la tecnica con l’artista, il quale sceglierà di usare solo l’obiettivo da 50 mm per tutte le sue successive fotografie. Una scelta di minimalismo come quella del percorso espositivo.

Ahmedabad India 1966

L’esperienza di Henri Cartier-Bresson lo rende oltre che un testimone oculare della storia del Novecento, una testimonianza incarnata. Prigioniero tedesco durante la seconda guerra mondiale, tentò la fuga due volte riuscendo al terzo tentativo, che lo costrinse a fingersi morto fino alla conclusione del conflitto. Sul tema del carcere è presente uno scatto, il più recente in esposizione, che risale al 1975, il quale ricorda ad Andrèa Holzherr un aneddoto: Henri Cartier-Bresson, solito rifiutare inviti a tenere workshop, accettò di fare un laboratorio con dei carcerati ai quali però non insegnò alcunché sul fotografare, bensì sul disegnare progetti per evadere dalla detenzione. I paesaggi agitati dalle piccole comparse umane dell’ultima sala sembrano sottolineare quell’attività tragica di evasione in cui, semplicemente guardando, ognuno di noi è coinvolto. Un’attività che Henri Cartier-Bresson ha catturato con leggerezza nei cinquantaquattro capolavori esposti.

info mostra

The Mind’s Eye
HENRI CARTIER-BRESSON
A cura di Simona Perchiazzi

PAN Palazzo delle Arti di Napoli
28 Aprile | 28 Luglio 2016

 

Articolo di Lorenzo Buongiovanni

 

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