In principio era l’Atlante della memoria (Bilderatlas Mnemosyne) di Aby Warburg, un tentativo classificatorio concepito nel 1926 e per i tre anni seguenti fino alla morte dello storico dell’arte. L’Atlante era il tentativo di catalogare e ordinare tutti i corpi della storia dell’arte, ma considerando solo i corpi mossi dal movimento originario delle passioni in tutta la storia dell’arte occidentale. Questo tentativo di tassonomia comprendeva tutto, anche le carte dei tarocchi. I corpi erano ordinati secondo immagini spogliate di tutti gli ornamenti, di tutti gli accessori fino al nudo profilo dei bianchi e dei neri. Riproduzioni fotografiche di sculture, dipinti, stampe, monete, profilate su pannelli immensi. Un archivio visivo che diede vita a una teoria, a un nome evocativo come Pathosformel o della formula che racchiude in sé il concetto fossile dei corpi mossi da passione senza controllo, più antica e più originaria del corpo stesso che la emana.

Da quell’archivio, da quel primo tentativo di classificazione è venuta in questi anni una nuova messa in ordine del materiale raccolto e della sua estensione teorica. Il Literary Lab della Stanford University, guidato da Franco Moretti, ha dato un nuovo approccio alla questione. Per avere un’idea di cosa si stia parlando basti dire che Franco Moretti, e con lui l’Università di Stanford (Palo Alto, Silicon Valley) ha influenzato gli studi letterari degli ultimi trent’anni come e quanto gli altri poli della Silincon Valley hanno influenzato l’era digitale.

Illustrazione di Roberta Garzillo

Torniamo ora a noi.
Per poter operare con algoritmi digitali bisognava scomporre in unità minime misurabili, e accessibili al calcolo quantitativo, la sterminata superficie delle immagini fotografate. Occorrevano unità astratte traducibili o descrivibili dagli algoritmi e non il repertorio visuale, la varietà delle testimonianze della storia. Per la prima volta ci si è posti il problema di creare un alfabeto di unità discrete, non fatto di lettere ma di porzioni visive, per l’esattezza di segmenti astratti dei corpi in movimento, forme della formula finale.
Tutti i corpi erano stati segmentati seguendo i movimenti delle ossa, gambe, spalle, braccia, collo. Escludendo la testa e le mani, elementi ritenuti sempre controllabili, in qualche modo estranei alla dinamica incontrollabile del pathos. Una volta ottenute le unità di questo alfabeto dei corpi è stato possibile operazionalizzare i dati con una ricerca algoritmica. Tutti i corpi registrati e archiviati sono stati interpretati visivamente dall’analisi digitale come un insieme coerente di linee, braccia, busto, gambe, prive di colore, di muscoli, della pelle, del viso, e delle mani. Corpi schematici interrelati grazie a una sequenzialità che interpretasse i risultati ricavabili dall’analisi. Questa è stata la prima radiografia passata attraverso tutte le forme della storia dell’arte. Il risultato è la sequenza della Totentanz, una sequenza ininterrotta e paragonabile all’elica del dna, la formula che può raggruppare tutte le forme. Scheletri, ominazioni puntiformi, linee antropomorfe, schemi di tutti i movimenti, ricavati dalle tele, dalle sculture, dagli affreschi. Una danza di morte al di sotto di tutto.
Dal risultato visuale ottenuto dal Lab, dal segreto digitale dei loro tabulati, delle carte operative, Damien Hirst, il celebrato artista inglese dei teschi incrostati di diamanti e degli squali in formaldeide, ha ricavato un affresco proiettato con la luce, un’opera riproducibile ospitata in una prima mostra stabile al Warburg Institute (Londra).
Sfilano su una parete bianca o lampeggiano in successione regolare tutte le risultanti della formula, il movimento della morte sottostante i corpi.
Come una metopa o un fregio, corre intorno quando la proiezione è animata ed è immobile quando la proiezione è completa di tutte le sue parti.
Ma questo fregio è un ricordo dei trionfi della morte, scolpito al laser in una linea di forme robotiche e siderali, filiformi, allungate, fino al tratto grafico più smaterializzato, fino alla pura segnaletica. Una segnaletica di ombre, e braccia spezzate come rette e geometrie innaturali. Un Laocoonte fatto di manichini, più ritorti e più immateriali di quelli della vecchia metafisica. E che della vecchia metafisica riproduce il contrasto tra il più immane desiderio di totalità, incarnatosi nell’archiviazione di ogni manifestazione della passione, e la più pura astrazione del visibile, del rappresentabile.


Disclaimer: quest’articolo fa parte della rubrica “Recensioni immaginarie” a cura di Emanuele Canzaniello, dove si narra di opere mai viste, top secret o immaginarie, il lettore si assume tutte le responsabilità di diffondere e/o condividere l’articolo.

A proposito dell'autore

Studioso di letterature comparate è autore di prose critiche su oggetti immaginari, dalle opere d’arte pubblicate in esclusiva per Racna alle recensioni di film mai esistiti apparse su «Le Parole e le Cose» e «Nazione Indiana». Del 2017 il suo primo libro di poesia Per l'odio che vi porto edito da Oédipus. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich.