Ci sono molti motivi per cui si decide di fare arte: uno dei più comuni è quello di comunicare un messaggio. L’arte spesso si fa politica, filosofia, sociologia, archeologia dei sentimenti, ermeneutica estetica.
Saverio Ammendola è forse uno degli ultimi convinti e preparati cultori dell’arte fatta per il gusto dell’arte – che è in fondo il modo più autentico di amarla. Non è prescindibile la sua impronta nella lussureggiante e sensuale mostra fotografica di Francesco Cabras, inaugurata l’11 Novembre nella sua Galleria La Mediterranea di via Carlo De Cesare, nei pressi della Galleria Umberto I di Napoli, visitabile dal lunedì al sabato, dalle 11 alle 13:30 e dalle 17 alle 20, fino al 2 Dicembre.

Guarda la fotogallery dell’inaugurazione a cura di Angelo Marra

 

È Ammendola a scegliere i sedici scatti esposti, selezionandoli secondo il suo gusto e il suo insindacabile giudizio, anche a costo di mettere in secondo piano la personalità e la storia artistica di Francesco Cabras. È una scelta fatta consapevolmente da entrambi: da Francesco Cabras che lascia carta bianca al gallerista/curatore e da Ammendola, come dichiarato con onestà negli stessi dépliant schierati sul tavolo di vetro nell’entrata dello spazio. Non è una mostra antologica: non ci sono titoli, niente dichiarazioni programmatiche, niente espliciti richiami a correnti, filoni, periodi storici; laddove possibile, si tenta di dare un po’ di spazio alle più significative ricerche e ai soggetti preferiti dall’autore.
Il risultato esalta il libero godimento estetico da parte di ogni spettatore, dal più ignaro al più consapevole. Molte sono le suggestioni che offre questa mostra, grazie alla molteplicità dei soggetti, dei punti di vista e dei mezzi, che vanno dalla vecchia fotografia in pellicola, in bianco e nero, alla fotocamera digitale (con qualche sensibile evidenza degli effetti di postproduzione grafica) e alla preziosità del supporto della carta cotone che permette una perfetta e morbida resa cromatica. È evidente in ogni scatto, dai paesaggi asiatici fino alle evocative immagini prese volutamente fuori fuoco, l’ispirazione filmica che le sottende, la “volontà di movimento” che brucia in tutte le figure dai caldi colori che le costruiscono, l’occhio dell’autore di reportage e documentari come The Big Question, realizzato con Alberto Molinari nel 2006 e prodotto da Mel Gibson.

Francesco Cabras con Fabio Donato - foto di Angelo Marra

Francesco Cabras con Fabio Donato – foto di Angelo Marra

I ritratti, coi loro colori intensi e cangianti attirano presto l’attenzione e l’immaginazione dei visitatori, così come la forza delle foto di manifesti vecchi e strappati, resi vivi e vitali dai toni saturi della fotocamera. Quelli che hanno colpito me, invece, sono un po’ più in fondo, nella sala. Soprattutto uno, in cui si riconosce l’uso di una vecchia pellicola Polaroid, animato da una quiete e da una piattezza languida che spiazza al confronto con tutte le altre opere. In esso si raffigura un uomo, dal tipico cappello a campana indocinese, che conduce col remo una piccola piroga su un fiume (forse il Mekong?), alle sue spalle un paesaggio esotico, bruno e ben poco distinto e il cielo, densamente bianco, forse brumoso, che si fonde perfettamente con lo stesso fiume. Mi ha ricordato con sorpresa quelle poche cose che conosco della pittura di paesaggio cinese, dall’epoca Song (960-1279) a seguire. Ispirata all’antica teosofia del Tao e al Buddhismo Chan, essa voleva esprimere nella scelta di paesaggi naturali, spesso antropizzati o comunque animati da figurine (così come molti secoli dopo avrebbero fatto anche i pittori della nostra – non poi così vecchia – Europa), il libero fluire e mutevole dello spirito nelle cose. Fedele alla contrapposizione tra Yin e Yiang, alle tradizioni del guazzo e della calligrafia, per i pittori di quell’epoca, il vuoto aveva lo stesso valore del pieno, costruiva in egual misura l’immagine. In tutto questo, il messaggio morale, cognitivo, la “historia”, erano assenti. Basta la contrapposizione tra il pieno e il vuoto, visto come riserva di energia inesauribile perché luogo di origine di ogni forma e segno e unico elemento del dipinto da cui si potesse esperire il senso del ritmo degli spazi e del fluire del tempo: in questo contrasto estetico sta tutto il significato possibile.
Diceva d’altronde il pittore Shi Tao (XVII secolo): “… La pittura è un esperienza di esplorazione non soltanto visiva, ma anche tattile, uditiva, sinestetica, un’esperienza di ambientamento, nel senso che il pittore si fa tutt’uno con il paesaggio, con il mondo che lo circonda; si riconosce con esso, attraverso di esso. Ambiente è ciò che circonda il pittore, ma non gli resta esteriore, estraneo; l’uno e l’altro si compenetrano, si completano …”(Z. Kostova, Sviluppo del pensiero estetico nell’arte cinese – approfondisci).
Ecco, proprio in questa impensata e fortuita analogia con l’arte cinese si può tentare di dare un’idea sia della concezione estetica di Francesco Cabras che di quella di Ammendola: dell’uno, la ricerca di uno spirito dell’immagine che tocca e compenetra l’artista, dell’altro, la rivendicazione in arte del piacere e del valore del significante autonomo e autosufficiente rispetto al significato.