Palazzo Bissi Bocchi di Parma propone fino al 25 gennaio 2015 una mostra sulla ricca Collezione Renato Bruson, con opere di  Boldini, Fattori, Lega, Segantini, Signorini e i vedutisti veneti dell’Ottocento.

Sembrerà poco professionale, eppure ho scoperto la mostra sulla Collezione Bruson a Parma solo per caso. Parma è una città elegante e discreta, vagamente snob sicché non urla le proprie attività ai quattro venti. A Palazzo Bossi Bocchi, un bel palazzo borghese senza troppe pretese ma caricato da troppi rifacimenti, arrivo quasi subito dopo aver scoperto la mostra e anche questo lo trovo sorprendente.

Cestino di fichi attribuito a Giovanni Segantini, olio su cartone, 22,5X42 cm, 1880-82

Cestino di fichi attribuito a Giovanni Segantini, olio su cartone, 22,5X42 cm, 1880-82

La mostra, curata da Carlo Sisi e Fernando Mazzocca, è stata inaugurata il 28 settembre, e rimarrà fino al 25 gennaio. Sin dai primi dettagli, a me ha parlato molto d’Italia, e non solo per una questione tematica; non solo per l’identità del donatore, uno dei più importanti cantanti d’opera al mondo, il baritono Renato Bruson, il quale ha costruito il suo successo sulle opere di Giuseppe Verdi, ma pure per una serie di piccoli e ironici dettagli.

Oliveta a Montopoli di Silvio Bicchi, pastello su cartone, 30X44,5 cm, 1930-35

Oliveta a Montopoli di Silvio Bicchi, pastello su cartone, 30X44,5 cm, 1930-35

Innanzitutto, questa mostra, raccolta, attenta e interessante, è organizzata da una fondazione bancaria, la Fondazione Cariparma (e saranno vent’anni oramai che, nella cultura italiana, non si muove foglia che fondazion non voglia). Inoltre è tutta animata da uno zelo organizzativo tale da sembrare mossa dalla volontà di distinguersi radicalmente dalla sciatteria tutta italiana dei musei pubblici, come se fosse l’ennesimo episodio della lunga guerra tra pubblico e privato per la gestione delle collezioni d’arte del Belpaese (guerra che, dopo Venezia e Siena, trova oggi a Brera il suo principale campo di battaglia). Ma tale zelo eccede dalle dimensioni, non tanto culturali, quanto materiali, della mostra creando ironicamente qualche disagio. Ad esempio, nei dispositivi di sicurezza: l’allarme scatta con efficiente puntualità ogni qual volta ci si avvicini troppo alle opere; tuttavia, essendo le poche sale dedicate all’esposizione piuttosto piccole e le opere oltre settanta, il non avvicinarsi troppo alle opere richiede grande circospezione, specie se nella sala ci sono più di cinque persone in una volta. Risultato? L’allarme scatta talmente tanto spesso da diventare la colonna sonora dell’esposizione. Un altro esempio di elemento di pregio che finisce col diventare un difetto sta nella presenza delle guide: le addette sono davvero gentili, preparate, perfino amabili e sarebbe davvero un’esperienza arricchente avere delle simili guide nelle grandi sale delle maggiori gallerie italiane, ma in questo contesto finiscono col monopolizzare l’attenzione di tutti e condizionare la libera lettura delle opere. Detto questo, Sisi e Mazzocca hanno fatto davvero un lavoro pregevole: la mostra si apre nel corridoio con alcuni pannelli informativi sulla figura e la carriera di Renato Bruson, munita di cimeli e disegni della fantasiosa moglie Titta, abilissima coreografa e costumista, tanto interessanti da farmi venir la voglia di conoscerli e parlare con loro di Le Goff e del medioevo. Quindi, si evolve nelle sale secondo un criterio cronologico.

Pastorello con gregge di Niccolò Cannicci, olio su tela, 38,5X82 cm, 1890-95

Pastorello con gregge di Niccolò Cannicci, olio su tela, 38,5X82 cm, 1890-95

Dapprima le opere dei grandi macchiaioli toscani, Fattori, Signorini, Lega, Banti, Cabianca: la guida ce ne illustra, come da prammatica, gli scambi e i rapporti con le coeve scuole pittoriche francesi (naturalisti, vedutisti di Barbizon, impressionisti), il profondo studio e la grande abilità nel dominare le possibilità espressive e sintetiche del colore. Ma quello che emerge soprattutto nella scelta di queste opere, e di ciò Bruson doveva esserne di certo consapevole, è una sorta di temperie eroica, di una celebrazione, condita da una retorica austera, dell’Italia e dell’italianità; sentimento che, del resto, era ben diffuso nei primi anni del Risorgimento italiano, anni di entusiastica attesa di positivistiche “magnifiche sorti e progressive” nell’intera penisola. Essa emerge soprattutto nelle tele e negli acquarelli di Fattori sui carabinieri a cavallo che, solidi e forti, accendono la nostra immaginazione solcando paesaggi ampi che appaiono come inesplorati (Traino di artiglieria, 1868-70). Altro quadro eccezionale è il ritratto del misero, ma dignitoso Pescatore del padule di Bescantina di Banti, fatto tutto di pennellate sintetiche e drammatiche.

Pescatore del padule di Bientina di Cristiano Banti, olio su tavola, 24,5X32,3 cm, 1872

Pescatore del padule di Bientina di Cristiano Banti, olio su tavola, 24,5X32,3 cm, 1872

Nelle sale successive, si nota come quelle grandi aspettative socio-politiche dei primi macchiaioli fossero state deluse: questa è la rivelazione storica di sottofondo. Dominano i quadri di paesaggio, il realismo cede il passo all’intimismo, talvolta davvero con un intento consolatorio: non mi viene da leggere in altro modo il senso degli sfarzosi e luminosi quadri di Niccolò Cannicci, ad esempio, così attenti alla maniera spagnola di Sorolla e Fortuny. La costruzione realistica cede il passo a una resa ancor più sintetica, tesa più a suggerire ed evocare le figure che a ricrearle, riflesso dell’affermazione dei nuovi principi dell’Impressionismo francese. Si preparano i successivi sviluppi delle scuole pittoriche italiane che, tra semplificazioni e disimpegni, superano i canoni dell’impressionismo. Ecco, ad esempio, il caravaggesco Cestino di fichi di Segantini, una Maternità “scapigliata” attribuita a Previati (due annunci del Divisionismo assente), le graziosità un po’ vuote di Vinea e Fabbi, giù fino ad arrivare all’espressionismo tardo e misurato di figure come Spadini, Bicchi, Mario Puccini, Ulvi Liegi, Bartolena, i cosiddetti “post-macchiaioli” di Livorno. Un’intera sala è dedicata ai romantici vedutisti veneziani dell’Ottocento, amanti del Guardi più che di Canaletto e riscopritori dei malinconici moli di Chioggia, essendo stufi marci del solito Palazzo Ducale di Venezia (se si esclude Emanuele Brugnoli). Bruson ha amato in modo particolare le maniere di Galter e Fragiacomo, prestando però molta attenzione agli sviluppi novecenteschi di Pieretto Bianco, Bazzaro, Italico Brass e agli acquerelli accademici di Paolo Sala, Zezzos e Ongania, ma sono senz’altro i Ciardi, Guglielmo e il figlio Beppe, a dominare la scena. Il dipinto Barche chioggiotte a Venezia di Guglielmo Ciardi unisce una tecnica sontuosa a un certo qual spirito di metafisica che iscrive di diritto il veneziano tra i massimi pittori del suo secolo.

Barche chioggiotte a Venezia di Guglielmo Ciardi, olio su tela, cm 47X57, 1878-80

Barche chioggiotte a Venezia di Guglielmo Ciardi, olio su tela, cm 47X57, 1878-80

L’ultima sala è quella dove lo spirito aristocratico e borghese, nient’affatto positivista del Bruson, perde ogni freno inibitore: è la sala dedicata alle opere di quella straordinaria, abilissima ed elegante meretrice modaiola che fu Giovanni Boldini: i suoi oli, i suoi acquerelli, i suoi pastelli, i disegni e schizzi a matita, sia ritrattistici che di paesaggio.

Signora Bionda in abito da sera di Giovanni Boldini, pastello su carta, cm 220X150, 1895-1900

Signora Bionda in abito da sera di Giovanni Boldini, pastello su carta, cm 220X150, 1895-1900

Il grandioso Signora bionda in abito da sera del 1900 domina la sala e si conquista anche le locandine dell’evento, ma la sua fredda severità “umbertina” è messa in ombra da opere molto più suggestive come l’Endormie (acquerello del 1895), il Ritratto di signora o la semplice Ragazza che legge. Tutte le altre opere sono adattate allo spirito mondano evocato da Boldini: così ad esempio le opere dei lombardi Alciati e Mariani o dei napoletani Irolli, Michetti, Ettore Tito, il cui Azzurri, ritratto di giovane donna dagli occhi sognanti, non mi sento di catalogare tra le migliori prove d’autore del pittore stabiese. Perfino il ricercato e meticoloso naturalismo di Pietro Pajetta, che risente della lezione di Filippo Palizzi, che si esprime nella tela de Il nuovo nato, forse una delle opere qualitativamente migliori di tutta l’esposizione, esprime un compiaciuto gusto borghese.

 

 Il nuovo nato (ammalato?) di Pietro Pajetta, olio su tela, 66X120 cm, 1893

Il nuovo nato (ammalato?) di Pietro Pajetta, olio su tela, 66X120 cm, 1893

Nel complesso, si tratta di una mostra bella, assai ricca di spunti di studio per gli addetti ai lavori e di suggestioni estetiche per i semplici amatori, ma soprattutto è l’esempio della generosità munifica di un grande italiano e profondo amatore del suo paese che, ancora vivente, ha deciso di donare alla comunità una collezione di importanti capolavori dell’arte italiana, scegliendo un momento storico di profonda crisi del nostro amor di patria (da non confondersi, prego, coi vari nazionalismi). “Tornate all’antico”, sembra dirci Renato Bruson, colle parole del suo amato Verdi, “e sarà un progresso”.

Ritratto di signora di Giovanni Boldini, matita su carta, 320X270 mm, 1874

Ritratto di signora di Giovanni Boldini, matita su carta, 320X270 mm, 1874